Ave Maria!

(Matteo 10,37-42)
 
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”. Ad essere sinceri, basterebbe questa espressione di Gesù ai suoi discepoli, tra le altre che abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi, per scoraggiare chiunque a commentarle in maniera stringente e autenticamente degna di quella verità di fede che queste espressioni vogliono suscitare in chi ascolta il Signore. Gesù, infatti, sta cercando di dire ai suoi discepoli che c’è un modo vero di seguirlo e ce ne è un altro falso e ipocrita. Ognuno di noi, quindi, è chiamato da Dio a scendere in fondo al proprio cuore e a saggiare, in profondità, quella sua verità che lo abita, nel caso voglia considerarsi davvero un discepolo o una discepola di Gesù. E qui casca l’asino, come dice un simpatico proverbio popolare: nessuno di noi, in verità, è disposto a tanto, ed anzi ama a tal punto le sue illusioni, modi di pensare ed essere, da preferire alla verità la parola dell’illusione, dell’inganno, della consolazione a buon mercato. E chiunque gliela voglia offrire. Anche nella fede.
La psicologia, questo studio impietoso e fastidioso del comportamento umano, - qualunque cosa noi ne pensiamo -, ci ha avvertiti a sufficienza sul fatto che l’essere umano corre più volentieri dietro l’idealizzazione di sé stesso, dei suoi sentimenti o della sua visione della vita, anziché di quella verità che coltiva nelle pieghe oscure del suo egoismo o del suo narcisismo. Insomma le due verità della nostra vera natura, quasi invincibili, sottili e insidiose come un tarlo. Non per nulla, oggi, gli uomini e le donne corrono dietro le amabili menzogne della pubblicità o della propaganda, - felicità, benessere, soddisfazione a qualsiasi prezzo -, pur di non mettere il naso dentro sé stessi, dentro le nostre domande sulla vita, la morte, l’amore. Leopardi, il grande poeta italiano dell’Ottocento, diceva giustamente che siamo condannati a vivere di “illusioni” ed anzi non possiamo vivere senza di esse. Forse per questa ragione, egli ha diffidato della fede cristiana dal momento che sentiva spesso “discorsi cristiani”, frasi fatte, esortazioni vagamente religiose, ma quasi mai il Signore della verità e della vita vera. Non ha avuto, ahimé, il dono dell’ammirazione verso Gesù, l’unico che poteva dire e dirgli la verità del nostro cuore malato e per certi aspetti innocente e indifeso, ma tanto bisognoso di aiuto, dell’aiuto di Dio. Se avesse capito, invece, la verità di Gesù che, proprio per la verità della nostra vita, ha preferito la croce e la morte, pur di non ingannarci con false concezioni religiose, forse, dico forse, avrebbe trovato in Gesù un amico di quella verità che cercava soltanto in sé stesso, nel proprio tormento e nel proprio anelito di ricerca verso una qualsiasi luce.
 
Non faccio a caso il nome di Leopardi. Non per indulgere alle mie predilezioni letterarie, - mentirei se dicessi che non ci siano in me e in modo anche profondo -, oppure per sfoggiare un po’ di raffinata cultura a beneficio di chi non ne sa niente e, per questo, ne rimane impressionato. No. Ma perché Leopardi si è trovato in una situazione, per certi aspetti, simile alla nostra: quali cristiani autentici egli ha incontrato nella sua vita? Non certo dei santi, come san Gabriele dell’Addolorata, quasi suo contemporaneo, e morto ad appena ventiquattro anni in un convento dei Passionisti, alle falde del Gran Sasso. Ha incontrato, piuttosto, il devozionalismo del padre, della madre, di un ambiente molto legato alle pratiche cattoliche, ma nel fondo senza “dramma” e quindi senza “amore” verso quel Gesù che diceva di voler seguire e riconoscere come Dio che viene a salvarci dal non senso della vita o dalla disperazione umana, troppo umana. E qui siamo anche nel nostro tempo.
 
Uno dei rischi maggiori del cristianesimo attuale è il tentativo, anche da parte dei credenti assidui e abituali, di trasformarlo a poco a poco da una “religione della croce” ad una “religione del benessere. Una religione, quindi, piccolo-borghese, adatta per qualche momento della settimana, ma senza alcun stimolo di verità, di dramma e di autentica ricerca dell’amore. E’ il pericolo, come diceva qualcuno, di “una religione senza pungiglione” e che avrebbe finito per predicare un “Dio senza collera, senza passione, senza amore”, o che “conduce alcuni uomini senza peccato verso un regno senza giudizio per mezzo di un Cristo senza croce” (R. Niebuhr). E’ esattamente il cristianesimo che Leopardi sentiva predicare nel suo tempo da parte di preti, monsignori e funzionari dello Stato Pontificio che, più che seguire una chiamata di Dio in Gesù, seguivano piuttosto il loro benessere esistenziale e materiale. Anche se forse in buona fede. E cioè avevano trovato nell’apparato ecclesiastico una sistemazione per la loro vita, un modo di evitare la miseria o l’emarginazione sociale. Non voglio esprimere un giudizio su queste esistenze (che spetta solo a Dio), ma non giova a nessuno nascondere quella verità che, ieri come oggi o domani, attende la fede di tutti e non soltanto quella di alcuni “privilegiati”.
 
Perché questa è la verità. Siamo riusciti a trasformare il cristianesimo in due tronconi incomunicabili: da un parte i preti, religiosi, suore, che sono votati ad ogni genere di rinuncia e quindi che vivono, in fondo, la fede al posto mio; e dall’altra, le persone comuni che non si sentono (così si dice) di fare certe scelte e aspettano dagli “addetti ai lavori” di essere confermati, forse, in una fede tiepida, incolore, senza la passione della ricerca di Dio. Hanno scelto, si direbbe, la passività o tutt’al più di essere “istruiti” nella fede da altri più esperti e più qualificati, magari perché “consacrati”. Il guaio è che gli stessi preti, talvolta, ci credono a questo loro compito o missione di istruire solo gli altri, mentre, nella loro vita autentica, si permettono ogni genere di trasgressione della verità del Vangelo. E, dal canto loro, le persone comuni, non “consacrate”, accettano di stare ad ascoltare questi “esperti di Dio”, ma anche di criticarli quando fa loro comodo e, sotto sotto, quasi di disprezzarli perché il più delle volte non sembrano all’altezza di quello che vorrebbero insegnare. E’ la confusione, tragica e distruttiva, della religione “borghese”, e che non ha niente a che fare con il Vangelo di Gesù.
 
Gesù, infatti, non ha mai inteso di separare l’umanità in una tacita categoria di “perfetti” e di “imperfetti”. La sua Chiesa è una, formata sì da diversi compiti o ministeri, ma tutti ugualmente “popolo di Dio” e tutti chiamati da lui suoi fratelli, amici, discepoli alla ricerca del volto vero e santo di Dio. E allora credere in un Dio Salvatore della nostra umanità, significa scoprire il Vangelo come fonte di vita e di stimolo per tutti e, allo stesso tempo, non significa vivere “immuni” alla sofferenza e al doloroso travaglio della vita. Il Vangelo di Gesù non è un tranquillante per una vita organizzata al servizio dei nostri fantasmi di piacere e di benessere. Gesù fa godere e fa soffrire, consola e inquieta, sostiene e contraddice. Solo così è via, verità e vita. Credere in un Dio Salvatore che, già fin da ora e senza attendere l’aldilà, cerca di liberarci da ciò che ci danneggia nel profondo del cuore, non deve portare a ritenere la fede cristiana come una religione “ad uso privato”, al servizio esclusivo dei nostri problemi e sofferenze. Piuttosto il Dio di Gesù Cristo ci invita sempre a guardare chi soffre, per una ragione o per l’altra. Il Vangelo non centra la persona sulla propria sofferenza, ma su quella degli altri. Solo così si vive la fede come esperienza di salvezza!
 
E dunque, mai l’insistenza sull’amore incondizionato di un Dio Amico deve significare la fabbricazione di un Dio a me, a noi conveniente, un Dio permissivo che davvero legittima una “fede borghese”: essere cristiani non significa ricercare il Dio che mi conviene e dice sì a tutto, la menzogna o la verità, senza incontrare il Dio, che proprio perché è Amico, sveglia la mia responsabilità. E perciò, più di una volta, mi fa rinunciare alla mia volontà o al mio tornaconto. Dopo tutto, nella fede, come nell’amore autentico (molto raro in questo mondo), tutto cammina sempre mescolato: la donazione confidente e il desiderio di possesso che poi finisce per stancarsi e passare ad altro, la generosità che dona molto e l’egoismo più bieco che si riprende tutto. Per questo motivo non possiamo cancellare dal Vangelo queste parole di Gesù che ci mettono sempre in cammino, nella fede come nell’amore. Parole dure ed oggi, credo, insopportabili, ma che ci mettono di fronte alla verità o meno della nostra fede: “ Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.
 
In sostanza, l’accento delle parole di Gesù è proprio in quell’espressione: “per causa mia”! Espressione decisiva e illuminante. Di fatto, una croce che abbiamo previsto, anche se discretamente pesante, una croce cioè modellata in anticipo sulle nostre forze e commisurata alla nostra generosità e alle nostre risorse, non è più la croce di Gesù. La nostra vera croce, in verità, è sempre per noi in qualche modo inattesa, sembra che superi le nostre forze. Nella maggior parte dei casi è quella che mai noi avremmo scelto. Quando ho deciso di accettare l’invito di Gesù ad essere prete (ma per gli altri), quando ho formato, - ma sempre per invito di Dio -, la comunità di San Leolino, non immaginavo neppure lontanamente a quale “croce” andavo incontro. Però sapevo per esperienza che, se anche quella croce sarebbe diventata un giorno più dura, più sfiancante, mai mi sarebbe mancato l’aiuto di Gesù, perché avrei portato quella croce “per causa sua”. Egli non poteva abbandonarmi, ed è questo che soprattutto sapevo.
Voglio dire che la nostra croce è sempre Gesù, non può che essere Lui! E accettarla, abbracciarla è accettare, abbracciare Lui e soltanto Lui, vale a dire “prendere la propria croce” e al contempo seguirlo dovunque Egli vada. Se noi conoscessimo davvero il “dono di Dio” che è Gesù, il Crocifisso del Golgota e il Risorto del mattino di Risurrezione, se potessimo vederlo e riconoscerlo in tutte le vicissitudini della nostra vita, capiremmo che vale la pena di seguirlo perché anche la nostra croce personale Egli la porterebbe al posto nostro, nel caso estremo che noi non ce la facessimo più a portarla. Conosce le nostre infermità e debolezze, come afferma la Lettera agli Ebrei, ed è per questo motivo, commentavano stupendamente i Padri della Chiesa, che Egli ha accettato per tutti di salire sulla Croce e da lì abbracciare tutta l’umanità, sofferente e ansiosa di luce, perché, agli occhi di Dio, questa umanità vale più di cento passeri, anche se creature benedette da Dio. Amen.
 
don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 27 giugno 2020

 

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